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Gli incredibili effetti del sacrificio

Monica Berg
Dicembre 4, 2023
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Qui a New York City, l’American Museum of Nature and Science ha di recente allestito una mostra intitolata “Estinti e in pericolo” e costituita da 40 fotografie scattate da Levon Biss che ritraevano ad alta risoluzione insetti rari su uno sfondo opaco. Lo spazio fra ciascuna foto (creato dall’oscurità dello scenario e dagli ampi spazi realizzati con le pareti delle sale) mette in evidenza dettagli come il grazioso bordo delle ali di una farfalla, i piccoli peli sull’addome di un calabrone o lo sfarfallio metallico della corazza di un coleottero. Ciò accade perché in questa mostra, come nella vita, ridurre il rumore di sottofondo amplifica le cose essenziali. 

Il disegnatore Scott McCloud ha creato un intero modello mettendo in mostra proprio questa filosofia. Secondo lui, “amplificare semplificando” significa spogliare una immagine fino a ridurla all’essenziale al fine di espanderne il significato. Anche molte pratiche Zen seguono questa linea di pensiero - fra le quali anche il tradizionale ikebana, l’arte giapponese di sistemare i fiori. Nell’ikebana, persino un ramo senza foglie può assumere un grande valore artistico e può essere degno di attenzione. Invece di riempire un vaso di fiori sbocciati, questa tradizione enfatizza la struttura e la bellezza attraverso il minimalismo.

Dunque, come possiamo beneficiare anche noi, nelle nostre vite, dall’idea di amplificare semplificando?

Da un punto di vista kabbalistico, il troppo - che sia fisico o mentale - è una forma di caos. Nel suo libro Taming Chaos, Rav Berg faceva notare come il caos può ostacolarci bloccando la Luce del Creatore e trattenendoci dal guardare alle nostre vite con chiarezza. Ha scritto: “Siamo stati programmati per credere che le questioni che ci riguardano siano troppo complesse per essere risolte con soluzioni facili e semplici; siamo predisposti a non credere nella semplicità. Facciamo sparire subito questo dubbio”.

Saremo tutti d’accordo sul fatto che viviamo in un’epoca di grande caos. Il “rumore” della vita moderna è eccezionalmente alto in questo periodo, forse addirittura più che in altri momenti storici, grazie ai social media e a notiziari costantemente disponibili. Sì, è importante essere informati e stare attenti al mondo che ci circonda - ma fino a un certo punto. Dobbiamo assolutamente abbassare il volume di quel rumore per vedere come possiamo essere al nostro meglio perché, con una tale, costante concentrazione, finiamo per perderci la chiarezza della nostra voce interiore. È semplificando che otteniamo quella chiarezza.

Quest’idea della semplificazione e della nitidezza l’ho scoperta di recente mentre ascoltavo un’intervista a Malcom Galdwell in The 10% Happier Podcast, di Dan Harris. Non era un episodio sulla semplificazione delle nostre vite, ma sulla gentilezza e il vero sacrificio. Parlava di entrambi, ma è stato uno studio che ha condiviso ad avermi toccato profondamente: si chiamava Minnesota Starvation (tradotto letteralmente: fame, inedia) Experiment, ed era esattamente ciò che sembra. Durante - e anche dopo - la Seconda Guerra Mondiale, tanta gente, nelle aree devastate dalla guerra, soffriva la fame e i dottori erano preoccupati di come ricondurla ad un buono stato di salute. Non avevano idea di come rimettere bene in piedi qualcuno dopo uno periodo così estremo di malnutrizione.

Ed ecco spuntare un gruppo di uomini profondamente religiosi che, per via della loro fede, avevano rifiutato di andare in guerra. Erano profondamente contrari alla violenza, ma trovarono comunque un modo per essere d’aiuto scegliendo di prendere parte a questo studio. Tutti diedero il proprio consenso a farsi privare del cibo per mesi e poi essere riabilitati cosicché i loro corpi potessero essere studiati e i ricercatori potessero scoprire come salvare le vite di migliaia di persone affamate. I loro corpi, proprio come la loro salute psicologica, affrontarono un processo estremamente duro. Nonostante il grandissimo successo ottenuto dallo studio, questi uomini portarono con sé conseguenze fisiche ed emotive per il resto delle loro vite. Soffrirono terribilmente - insonnia, problemi digestivi ed ossei, depressione, ansia, disturbo post-traumatico da stress, ideazione suicidaria - e, alla fine della ricerca, dovettero essere aiutati dall’Università a trovare un lavoro perché non solo erano troppo deboli per svolgerne uno di natura fisica, ma anche la loro ambizione e il loro desiderio di andare avanti erano praticamente scomparsi.

Sessant’anni dopo l’esperimento 18 dei 40 uomini che vi avevano preso parte erano ancora vivi e accettarono di essere intervistati. Parlarono a lungo delle loro esperienze:moltissimi dei loro ricordi erano ancora molto vividi. Ciascuno parlò delle proprie sofferenze durante - e dopo - l’esperimento e ricordò cose come una tremenda ossessione per il cibo che consumava le loro vite. Descrissero nei dettagli effetti fisici come anemie, edemi, ossa sporgenti e problemi dermatologici e rievocarono i momenti in cui camminavano accanto al compagno loro assegnato ogni giorno (era stato, infatti, sviluppato un sistema di assegnazione di compagni per aiutarli a non interrompere la dieta ogni volta che uscivano dal campus universitario).

Uno studio come questo oggi non lo si potrebbe mai fare - va contro a troppe linee guida etiche oggi in vigore.

E poi, chi accetterebbe un sacrificio di questo tipo? Proprio come si è interrogato Gladwell nell’episodio del podcast, l’ho fatto anch’io: quando è che siamo diventati così intolleranti al sacrificio?

Potreste chiedermi che c’entra questo con la semplificazione e la risposta la si può trovare in quel gruppo di 40 uomini. La loro fede gli aveva reso impossibile contribuire coi propri sforzi in qualità di soldati - eppure desideravano comunque fare qualcosa e lo studio gli fornì un modo per essere utili senza andare contro a ciò in cui credevano. Malgrado la grandissima sofferenza e difficoltà, ciascuno di quegli uomini era orgoglioso di aver dato il proprio contributo. Non solo: dissero anche che i loro orizzonti morali si erano allargati fino al punto in cui la consideravano una delle più importanti esperienze della loro vita.

Dissero che lo avrebbero rifatto senza alcuna esitazione.

Quando abbassiamo il volume del rumore, le risposte sono chiare. Un numero vastissimo di persone era in grande difficoltà e questi uomini desideravano fare sì che le loro necessità fossero accolte. Tutto qui.

La parola sacrificio può far venire fuori una moltitudine di associazioni dispregiative. Eppure, il sacrificio è definito come “l’atto di dare via qualcosa di importante per qualcos’altro che viene considerato ancor più importante o degno”. Non dobbiamo fare enormi sacrifici ogni giorni, soprattutto al caro prezzo del nostro benessere, ma questa nozione di rinunciare a qualcosa a cui teniamo per un bene più grande è alla radice della generosità e della gentilezza. Piccoli sacrifici per essere gentili possono avere un impatto molto importante, e siamo tutti capaci di compierne.

Qual è il rumore di sottofondo nelle nostre vite?
Dov’è che dobbiamo gestire il caos?
Come possiamo rimuovere gli ostacoli?

La risposta potrebbe trovarsi nel nostro prossimo gesto di pura gentilezza. Quando si cerca un modo per essere d’aiuto, si scopre anche che tutto diventa più semplice. 


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